Nel Duomo di Milano la mattina del 15 dicembre del 1969, ai lati della lunga navata centrale della chiesa a croce latina, sono disposte le 14 bare delle vittime dell’attentato che tre giorni prima ha sventrato la Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. In tre, Calogero Galatioto, Angelo Scaglia e Vittorio Mocchi, moriranno nei giorni successivi all’esplosione della bomba, a causa delle ferite riportate. Mentre dentro la cattedrale gotica il cardinale Giovanni Colombo officia le esequie tra le impalcature che sorreggono le volte, a causa dei crolli che ci sono stati nei giorni precedenti, fuori, sotto un cielo livido e nel silenzio della celebrazione, in 300 000 sono assiepati per rendere omaggio ai caduti. Nella nebbia da cartolina milanese, si notano le 100 000 tute blu degli operai, arrivati nel capoluogo da tutta la Lombardia a celebrare la loro messa laica.
In via Fatebenefratelli, al quarto piano della Questura di Milano, va avanti da tre giorni l’interrogatorio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, sospettato di aver materialmente piazzato l’esplosivo necessario all’attentato. A condurre il colloquio c’è il commissario di polizia Luigi Calabresi, incaricato di seguire le indagini per i fatti di Piazza Fontana. Il fermo è diventato illegale già da qualche ora, perché nei confronti di Pinelli non è stata ancora formalizzata nessuna accusa ufficiale e tutti i tentativi di farlo confessare sono stati un buco nell’acqua. I poliziotti le provano tutte per far parlare l’anarchico: lo mettono sotto pressione, lo spingono a dichiararsi colpevole prima che il suo nome lo faccia qualche complice, vola più di qualche schiaffo (una lesione alla base del collo riscontrata nella successiva autopsia farà montare l’ipotesi, esposta per primo da Paolo Guzzanti sulle colonne dell’ ”Avanti!”, che Pinelli sia stato colpito con un colpo di karate), ma il sospettato non parla. Dopo quasi quattro giorni, nella tarda serata del 15 dicembre, Giuseppe Pinelli vola dalla finestra della stanza al quarto piano della Questura di Milano, in cui si era tenuto l’interrogatorio. Muore poco dopo, mentre viene trasferito all’ospedale Fatebenefratelli. Luigi Calabresi, responsabile dell’incolumità del fermato, non è in quell’ufficio nel momento in cui l’anarchico cade giù dalla finestra. Pinelli è ancora sull’ambulanza agonizzante quando il questore di Milano, Marcello Guida, uno dei tanti a quell’epoca ad aver fatto carriera in polizia durante il ventennio fascista, si affretta a convocare una conferenza stampa per annunciare che l’alibi dell’anarchico si era rivelato falso e questo, vistosi braccato, si era lanciato dalla finestra aperta urlando: “È la fine dell’anarchia!”. Una versione che non ha mai trovato riscontri e che verrà di fatto smentita dalla pronuncia del tribunale, che sei anni dopo stabilisce che Pinelli non era mai stato coinvolto nei fatti della Banca Nazionale dell’Agricoltura.
Le indagini però proseguono seguendo la pista anarchica. Il 16 dicembre, viene arrestato Pietro Valpreda, ballerino anch’egli anarchico, che rimane in carcere per tre anni in attesa di giudizio ma che viene assolto con formula piena dalle accuse di strage per insufficienza di prove.
“Calabresi era il commissario di polizia responsabile dell’inchiesta sulla strage, che in quel momento era tutta incentrata su una pista completamente artefatta. Formata da prove false, indicazioni fuorvianti, tutte finalizzate non alla ricerca dei responsabili ma alla individuazione di personaggi nell’anarchismo a cui poter accollare la colpevolezza, a confermare una tesi che evidentemente era già precostituita”, dice Davide Conti, storico e autore di libri sul terrorismo di quegli anni. “Questo significava garantire una copertura ai veri responsabili e continuare a fornire una lettura dei fatti tutta incentrata a seguire gli obiettivi degli stragisti, cioè far ricadere le colpe sugli anarchici”. Ma nel maggio del 1970 il pubblico ministero Giovanni Caizzi chiude le indagini preliminari con un’istanza di archiviazione dell’intera istruttoria sulla morte di Pinelli, quale fatto del tutto accidentale. Il ferroviere, secondo la sentenza, viene colpito da un malore, dovuto al freddo e alle tante sigarette fumate a stomaco vuoto. Cita la delibera: “Nel termine malore ricomprendiamo il collasso che […] si manifesta […] con l’alterazione del “centro di equilibrio” cui non segue perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati”. Movimenti che, secondo la ricostruzione, hanno determinato la caduta di Pinelli dalla finestra lasciata aperta.
Se l’inchiesta giudiziaria sulla morte di Giuseppe Pinelli si conclude con lo smarcamento di Calabresi da ogni responsabilità oggettiva, diversa è la strada che prendono le inchieste giornalistiche nei giorni immediatamente successivi al decesso dell’anarchico. Sulle pagine di molti giornali di sinistra cominciano a comparire attacchi diretti al commissario: “Il fatto che Calabresi fece fortissime pressioni su Pinelli per fargli confessare qualcosa che non poteva confessare, perchè era innocente, lasciava liberi i veri responsabili”, spiega Conti sui motivi che scatenarono la campagna stampa contro il funzionario della Questura di Milano in quei giorni. “Una condotta che portava a pensare che la Questura agisse a tutela di chi invece quella strage l’aveva compiuta, come poi è avvenuto”. L’Espresso, il 13 giugno del 1971, pubblica una lettera aperta sul caso Pinelli, in cui si scaglia contro l’operato del commissario. Lo scritto viene firmato da 757 tra le più importanti personalità della vita culturale e politica dell’epoca. Nomi come Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco e Primo Levi, sottoscrivono un appello alle istituzioni che non lascia spazio alle interpretazioni:
«Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio, Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile. Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha nascosto le trame di una odiosa coercizione.
Oggi come ieri – quando denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a nostra volta un atto di ricusazione.
Una ricusazione di coscienza – che non ha minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini.»
Un clima infuocato, alimentato con forza da Lotta Continua, sin dalle settimane immediatamente successive all’attentato alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. Non c’è settimana che sul periodico della sinistra radicale non compaiano articoli e vignette che si scagliano contro Calabresi, soprannominato “il commissario defenestratore”, “l’assassino di Pinelli” e “l’agente dei servizi segreti”, a causa di uno scambio di persona avvenuto con Lorenzo Calabrese, ex questore di Milano e uomo vicino ai servizi segreti italiani e alla Cia.
«Archiviano Pinelli, ammazziamo Calabresi»: è scritto sui muri di Milano, è scritto anche sulla caserma S. Ambrogio, e noi, solo per dovere di cronaca, come si dice, riportiamo la cosa. A prima vista, a noi superficiali lettori di scritte murali, questo sembrerebbe un incitamento all’omicidio di funzionario di P.S. Quello che infastidisce è che, se qualcuno segue il suggerimento, si rischia di vedere saltare, per morte del querelante, il processo Calabresi-Lotta Continua, e la cosa in effetti ci dispiacerebbe un po’… A questo punto qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi e Guida per «falso ideologico in atto pubblico»; noi che, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte, ci accontentiamo di acquisire anche questo elemento… Questo processo lo si deve fare, e questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai ed è inutile che si dibatta «come un bufalo inferocito che corre per i quattro angoli della foresta in fiamme».
Da Un’amnistia per Calabresi, Lotta Continua, 6 giugno 1970.
“Archiviano Pinelli, ammazziamo Calabresi”, un proposito che si concretizza la mattina del 17 maggio 1972. Luigi Calabresi viene ucciso con due colpi di pistola alle spalle, a pochi metri da casa sua, mentre si reca a lavoro. Un omicidio che per 16 anni non ha avuto un colpevole. Solo nel 1988, Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, confessa di aver fatto parte del commando che sparò al commissario. Secondo la confessione di Marino a premere il grilletto è stato Ovidio Bompressi, mentre l’ordine è partito da Giorgio Pietrostefani con l’assenso di Adriano Sofri, tutti ai vertici del settimanale comunista. Dopo lunghe vicissitudini giudiziarie, fatte di condanne assoluzioni e ribaltamenti della Cassazione Sofri, Pietrostefani e Bompressi vengono dichiarati colpevoli d’omicidio e obbligati a scontare 22 anni di carcere.
Il 9 maggio del 2009, Licia Rognini e Gemma Capra, le vedove di Giuseppe Pinelli e Luigi Calabresi, si sono incontrate al Quirinale, in occasione della Giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è entrato nella Sala dei Corazzieri accompagnato dalle due donne a dai loro figli Claudia Pinelli e Mario Calabresi. Le famiglie hanno assistito alla cerimonia a poche sedie di distanza e dopo quasi 40 anni si sono strette la mano.