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Quando il Muro di Berlino
sconvolse
la politica italiana

di Giulio Seminara30 Ottobre 2019
30 Ottobre 2019

Prosegue l’ inchiesta a puntate
per ricordare il trentesimo anniversario
della caduta del Muro di Berlino

La caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre 1989, provocò uno straordinario effetto domino politico e culturale che coinvolse anche l’Italia, dando il via a eventi che hanno inciso profondamente nella storia dell’Europa e del nostro Paese.

Andreotti “riunificatore”

Viene difficile pensarlo oggi ma l’Italia ha giocato un ruolo importante nella riunificazione della Germania, all’epoca per nulla scontata. Nel 1989 il governo italiano deteneva la presidenza di turno della Comunità economica europea (Cee) e l’allora capo dell’esecutivo Giulio Andreotti sfruttò la circostanza per ritagliarsi un ruolo da protagonista nella politica continentale, e in particolare nella gestione della “questione tedesca” all’indomani della caduta del Muro.

Nel 2009, a vent’anni dall’avvenimento, l’ex premier raccontò quella fase delicata in un lungo colloquio sulle pagine di 30Giorni, il periodico che dirigeva.
Andreotti era notoriamente contrario alla riunificazione tedesca, tanto che nel 1984 pronunciò la celebre frase “Amo tanto la Germania da volerne due”. La motivazione politica alla base era il timore, piuttosto diffuso dentro una Cee la cui classe dirigente era nata e cresciuta tra le macerie della seconda guerra mondiale, che una Germania unita sarebbe stata un potenziale pericolo per l’Europa.

Campionessa di questa linea era la premier britannica Margareth Thatcher che paventò il rischio di “un’Europa tedesca”. Ma la posizione conciliante del presidente francese Francois Mitterrand, il via libera dell’inquilino della Casa Bianca George Bush e l’iperattivismo del cancelliere della Repubblica federale tedesca Helmut Khol portarono a uno stallo. A quel punto il leader dc fiutò l’aria e, con uno spettacolare contorsionismo politico, si tramutò in alfiere della causa tedesca, contribuendo a risolvere l’impasse.

Helmut Kohl e Giulio Andreotti alla Camera dei deputati nel 1990

Emblema del voltafaccia il discorso di Andreotti a Pisa, dopo un incontro con Kohl, nel febbraio del 1990: “La situazione internazionale è cambiata, io sono favorevole alla riunificazione e fossi tedesco avrei pure ansia nel realizzarla”. Decisivo o meno, Andreotti è stato uno dei padri del trattato di Maastricht del 1992 con il quale la Comunità europea accettava la riunificazione della Germania. In cambio i tedeschi si impegnavano a fare pienamente parte del processo di integrazione europea, lasciando il marco, valuta all’epoca molto forte, a favore della futura moneta unica, l’euro.

 

La svolta di Occhetto

In Italia i più colpiti dalla caduta del Muro furono i militanti e dirigenti del Pci, il maggiore partito comunista d’Occidente. Quell’anno avevano già assistito, impotenti, alla rapida dissoluzione di tutto il blocco orientale: prima della Germania Est già Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia e la Romania avevano rovesciato i rispettivi regimi comunisti e proclamato l’indipendenza, decretando la fine dell’impero sovietico. Moriva così l’Internazionale comunista della quale i membri italiani erano stati interpreti per decenni.

Quel novembre i comunisti italiani si trovarono di fronte a un bivio: o cambiare, dissociandosi definitivamente da Mosca e dal socialismo reale, o sparire, travolti dalla Storia. Anche se già il giorno dopo la caduta del Muro alcuni titoli del giornale di partito, L’Unità, come “Il giorno più bello per l’Europa” e “Un moto di libertà” fecero capire subito quale sarebbe stata la linea prevalente.

Segretario del Pci era Achille Occhetto, già critico con l’Urss e animatore di istanze rinnovatrici nel partito. Lui vide le picconate di Berlino come “un evento liberatorio”, l’opportunità di archiviare una storia molto pesante e fare uscire il principale partito della sinistra italiana dall’isolamento che gli era stato imposto da un mondo diviso in due. Fino alla caduta del Muro.

Manifestazione della FGCI a Roma nel 1980

Intervistato da Lumsanews, Occhetto racconta la genesi della sua “svolta della Bolognina”, la volontà di superare il Pci in favore di “una costituzione delle idee che coinvolgesse tutti gli italiani”, come una “seconda resistenza”. E ricorda con amarezza il tentativo di fare un soggetto unico con i socialisti, per unire la sinistra dopo decenni di lacerazioni e andare insieme al governo. Progetto fallito per colpa “dell’arroganza di Craxi”. La “svolta”, annunciata a sorpresa dal segretario pochi giorni dopo la caduta del Muro, generò un dibattito drammatico che interessò milioni di comunisti italiani, “si sfasciarono famiglie” ricorda Occhetto.

La sofferenza e il disorientamento della base, abituata a un partito-chiesa, non intralciò il progetto dei dirigenti pro rinnovamento, tra i quali Giorgio Napolitano che aveva subito visto nella caduta del Muro un “rivolgimento straordinario” da cavalcare, anche a costo di mettere in soffitta la bandiera rossa. Il lungo iter congressuale si concluse con il 70% di favorevoli alla svolta. Nel febbraio del 1991, Occhetto, ultimo segretario del Pci, pose fine alla storia del più grande partito comunista d’Occidente, inaugurando il Partito Democratico della Sinistra e candidando gli eredi di Togliatti alla guida del Paese, dopo l’estromissione del 1947.

 

La nascita della Lega Nord

La caduta del Muro e la svolta di Occhetto portarono alla fine dell’estromissione dei comunisti dal governo italiano. Adesso che lo spettro del socialismo reale eterodiretto da Mosca non esisteva più, i partiti italiani non erano più “obbligati” a stare insieme per tenere fuori il Pci, e molti cittadini non si sentirono più costretti a votare Dc contro il pericolo comunista. Inoltre l’accelerazione del processo di integrazione europea, legata alla riunificazione della Germania, pose le basi per il trattato di Maastricht e la moneta unica, obiettivo raggiungibile solo tramite una forte stretta sui conti degli italiani. Molti settentrionali, a loro modo influenzati dal clima di novità e libertà che attraversava il continente, e insieme frustrati dal carico fiscale che l’Europa pretendeva, decisero di non sostenere più il pentapartito e la Dc, optando per nuove forze politiche autonomiste.

Alle elezioni politiche del 1983, la Liga Veneta, aveva già eletto un deputato e un senatore. Alle successive elezioni del 1987 un altro partito regionalista, la Lega Lombarda, portò in Senato il segretario Umberto Bossi. Nel 1989, alle elezioni europee di giugno, i due partiti, assieme ad altri movimenti regionalisti, si presentano sotto il nome di Lega Lombarda – Alleanza Nord, ottenendo l’1,8% dei voti.

Il segretario della Lega Nord Umberto Bossi a Pontida nel 1990

Il 4 dicembre 1989 a Bergamo i vertici di queste e altre forze politiche regionaliste di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Liguria e Piemonte costituirono il movimento Lega Nord, soggetto politico confederale che voleva la secessione di un’area geografica e politica da loro denominata “Padania” dal resto dell’Italia.

La Lega Nord fece propri lo spirito di rivolta, libertà e autodeterminazione che attraversava l’Europa ma contro l’unità nazionale e in particolare un Sud “sprecone e parassita”. Certamente il “tirare la cinghia” imposto dalla locomotiva Europa che premeva per la moneta unica favorì l’insofferenza di un certo ceto produttivo e il rafforzamento delle istanze federalistiche proposte dalla Lega Nord. Nel 1991 erano già diversi i sindaci leghisti in “Padania”. Caduto un Muro a Berlino, se ne fece un altro in Italia.

 

 

 

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