“Sono una donna fortunata perché non ho mai provato odio”.
Non sembrano le parole di una donna alla quale hanno strappato per sempre la sua bambina. Sono le parole di una madre che aspettava che la figlia ritornasse dal mare, dopo una giornata trascorsa con il padre. Eppure Angela Procaccini, la madre di Simonetta Lamberti, prima bambina uccisa dalla camorra, non prova odio. “L’odio è qualcosa che ti fa del male, certamente non migliora la situazione. Acuisce la sofferenza”.
L’omicidio di Simonetta Lamberti è il primo di una terribile serie di delitti che coinvolgono bambini. Per errore, per caso, per quel luogo comune che spesso si identifica con questa frase: “trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Il comun denominatore è uno solo: il sistema criminale delle mafie.
L’Associazione Libera ha contato 108 bambini vittime innocenti delle mafie fino al 2017. La più piccola si chiama Caterina Nencioni, 53 giorni, uccisa nel 1993 insieme alla sorella Nadia, 8 anni. Il 24 ottobre 1982 a Vibo Valentia due malavitosi piazzano una bomba in località Pizzini di Filandri, sbagliando il posto e uccidendo Attilio e Bortolo Pesce, 10 e 14 anni. I due fratellini stavano giocando. Annalisa Durante invece aveva 14 anni quando, il 27 marzo 2004, è stata uccisa a Forcella: coinvolta in uno scontro a fuoco tra due clan rivali, viene trascinata e usata come scudo umano.
Simonetta è stata uccisa il 29 maggio 1982 da un colpo di pistola alla testa. Aveva 11 anni. La bambina si trovava in auto con il padre, Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina impegnato nelle indagini contro la Nuova Camorra organizzata (NCO).
“Quel giorno di maggio era pieno di sole”, racconta oggi Angela Procaccini. Al posto di Simonetta al mare doveva andarci il fratello Francesco che ancora porta su di sé il peso della morte della sorella. “Il suo rifiuto ha segnato la morte di Simonetta. Lei ci andò, ma controvoglia perché mi era sempre accanto, si sedeva vicino a me mentre rigovernavo in cucina. Si metteva su un banchetto e faceva la maestra, era questo il suo sogno”.
“Non durò tantissimo la gita al mare”, ricorda la madre di Simonetta. La bambina mostrava insofferenza e voglia di tornare a casa dalla mamma. Non era abituata a trascorrere del tempo con il padre, sempre impegnato con il suo lavoro e con indagini importanti. Si rimisero in macchina. “La Bmw nera che ricordo come un mostro venne affiancata e spararono contro tutti e due, pur vedendo che c’era una bimba seduta accanto al padre”.
Gli anni ‘90 furono anche gli anni della Sacra Corona Unita, organizzazione criminale pugliese. Quanto furono sanguinosi lo racconta Daniela Marcone, vice presidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, ucciso il 31 marzo 1995 davanti al portone di casa mentre rientrava dal lavoro. Era direttore dell’ufficio di Registro di Foggia. Il 22 marzo aveva inviato un esposto alla Procura della Repubblica contro alcune truffe perpetrate da ignoti falsi mediatori che garantivano, dietro pagamento, il rapido disbrigo di pratiche riguardanti lo stesso ufficio.
“Dopo nemmeno un anno dalla morte di mio padre ho iniziato a pensare che in rete con altre persone sarei stata più forte”, dice Marcone. “Il 21 marzo 1996 ero in piazza del Campidoglio in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Lì ho incontrato altre persone che come me avevano deciso di non stare con la testa abbassata nel dolore e di trasformare questo dolore in impegno. Quel giorno fu letto per la prima volta in una piazza pubblica il nome di mio padre. Il fatto di sentirlo così forte e chiaro, in una piazza lontana da casa mi fece capire che c’era una speranza, che il mio percorso non nasceva e moriva nella mia città”.
Scorrendo l’elenco delle vittime innocenti di mafia stilato da vivilibera.it, è evidente come negli anni si sia registrato un numero minore rispetto agli anni passati. “Il racconto del dolore e di quello che le mafie fanno irrompendo nella vita di una famiglia e di persone innocenti ha determinato un cambiamento nella percezione e consapevolezza della gravità di quello che fanno e del dolore che infliggono non solo alle singole famiglie ma a tutta la comunità”, continua così il suo racconto Daniela Marcone.
Qualcosa è cambiato anche nei sistemi criminali. “Le stesse organizzazioni criminali si sono riorganizzate, non hanno più bisogno di uccidere. Prima usavano questa strategia del terrore per creare silenzio, per costruire l’omertà tipica delle mafie. Adesso hanno altre strade, si sono fatte avanti con tecniche corruttive sempre più profonde entrando in luoghi dove prima non riuscivano ad entrare e hanno capito che utilizzando anche il mondo della politica possono dominare il territorio senza spargere tanto sangue”.
Il procuratore capo di Barcellona Pozzo di Gotto, Emanuele Crescenti, tiene però alta l’allerta: “È un errore considerare che a una diminuzione di fatti di sangue corrisponda una minore pericolosità della mafia. Studi sociologici e dimostrano che quando la mafia uccide non può farne a meno. Se non spara non vuol dire che è stata sconfitta, che sia scomparsa o in difficoltà, anzi. È segno che riesce a controllare i suoi affari senza bisogno di fare ricorso alla forza”.