Tra i punti oscuri della tragica vicenda di Aldo Moro, uno di quelli sui quali ancora si discute riguarda le 97 lettere (per altri sono 98, ma già definirne il numero esatto ci porta a intuire i misteri che vi ruotano intorno) che il leader della Democrazia cristiana scrisse durante i 55 giorni nei quali rimase prigioniero delle Brigate Rosse.
Sulle dimensioni precise dell’epistolario vi sono versioni discordanti a seconda delle fasi in cui sono state ritrovate. Le missive, alcune recapitate ai destinatari dai brigatisti nei giorni del rapimento e altre inedite, vennero scoperte in due momenti differenti a distanza di 12 anni. La prima parte è stata rinvenuta dai carabinieri del nucleo anti terrorismo, guidato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Il 1° ottobre 1978, ovvero circa cinque mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, all’interno di un appartamento di via Monte Nevoso 8 a Milano, considerato uno dei principali covi brigatisti. Una seconda parte venne invece individuata il 12 ottobre 1990, all’interno di un’intercapedine coperta da un pannello di legno, da un muratore durante i lavori di ristrutturazione della casa. Oltre alle lettere, va detto che venne trovato anche altro materiale, tra cui i “verbali d’interrogatorio” ai quali Moro fu sottoposto dai suoi carcerieri e un manoscritto realizzato dallo stesso esponente dc, noto come Memoriale Moro.
Un altro punto importante riguarda l’identità di coloro che consegnavano le lettere. Secondo quanto emerso dalle varie inchieste portate avanti negli anni dalla magistratura e dalle rivelazioni postume degli stessi terroristi, sarebbero stati tre i “postini” delle Br: Adriana Faranda, Valerio Morucci e Bruno Seghetti. Un ruolo significativo lo avrebbe avuto anche monsignor Antonello Mennini, che fece da intermediario consegnando alla famiglia diverse lettere dello statista, ma che ha sempre smentito di aver incontrato Moro nel covo di via Montalcini, circostanza della quale aveva parlato Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno.
Delle 97 lettere, risultano esserne state recapitate poco più di 20. Le missive si dividono in due gruppi. Da una parte quelle politiche, rivolte ai vertici del suo partito, la Democrazia cristiana, ma anche alle principali cariche dello Stato e a papa Paolo VI. Dall’altra i messaggi più privati indirizzati alla moglie Eleonora e ai figli. Analizzando le prime, emerge tutta l’abilità politica di Moro, lui stesso a capo del partito che voleva la trattativa con i brigatisti. Una posizione che cozzava però contro la linea intransigente adottata, sin dalle prime fasi successive al rapimento, dalla Democrazia Cristiana. Ciò emerge già dalla lettera, recapitata il 4 aprile e indirizzata a Benigno Zaccagnini, l’allora segretario del partito, con la quale Moro si rivolge anche agli altri leader democristiani (Fanfani, Andreotti, Cossiga) per invitarli a valutare la possibilità di uno scambio di prigionieri, unico modo per salvarlo, oltre a ribadire di aver accettato la carica di Presidente contro la sua volontà.
Con il passare dei giorni, e con la crescente consapevolezza che la posizione del partito non cambierà, i toni di Moro diventano più drammatici. In una lettera recapitata l’8 aprile, c’è un vero e proprio anatema contro i vertici democristiani: “Non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente a una carica che doveva essermi salvata accettando anche lo scambio di prigionieri. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro”. L’amarezza e la delusione nei confronti del suo partito porta Moro, in una delle ultime lettere (che però non risulta essere stata consegnata) a comunicare la decisione “cui sono pervenuto nel corso di questa lunga e drammatica esperienza, di lasciare in modo irrevocabile la Democrazia Cristiana. Sono conseguentemente dimissionario dalle cariche di membro e presidente del Consiglio Nazionale e di componente la Direzione Centrale del partito”.
Le lettere alla famiglia possono invece essere considerate un vero e proprio testamento morale e spirituale dello statista. Dai messaggi, indirizzati a “Noretta” (il vezzeggiativo affettuoso con cui indica la moglie Eleonora) e ai quattro figli Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni, traspare tutto il dolore e il patimento interiore di un uomo che si vede privato degli affetti più cari e la cui angoscia cresce con il passare delle settimane, quando diventa chiaro che i vertici del suo partito non faranno nulla per salvarlo.
Parole di grande tenerezza, come quelle usate nella prima lettera alla moglie, datata 29 marzo (“desidero farti aggiungere, nel giorno di Pasqua, gli auguri più fervidi e affettuosi con tanta tenerezza per la famiglia. Vi benedico, invio tante cose care a tutti”) ma anche di rassegnazione, come quando Moro scrive di “essere giunto all’estremo delle mie possibilità e sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana”. Un dramma che raggiunge l’apice nel momento in cui il presidente Dc, dopo aver citato versi della Genesi, rivolge un’invocazione a Eleonora: “vorrei avere la fede che hai tu, per immaginare i cori degli angeli che mi conducono dalla terra al cielo”.
Le ultime lettere, quelle dell’addio, sono datate 5 maggio 1978 e contengono, oltre alla richiesta di pregare per lui, anche parole (“vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della Dc per il suo assurdo e incredibile comportamento”) con cui Moro attacca nuovamente il partito, ritenendolo responsabile della sua morte ormai imminente. I funerali si svolsero, tra l’altro, in due momenti differenti. La cerimonia ufficiale venne celebrata il 13 maggio nella basilica di San Giovanni in Laterano, alla presenza di Papa Paolo VI ma senza il corpo di Moro, che fu poi sepolto, qualche giorno più tardi, nel cimitero di Torrita Tiberina, al termine di una commemorazione privata, alla quale presero parte solo i familiari.