Un anno fa la storia del Medio Oriente ha cambiato verso. Hamas sfondava il confine tra la Striscia di Gaza e Israele con un’operazione senza precedenti: circa 2500 miliziani a bordo di autocarri, camioncini, motociclette, deltaplani entravano nei kibbutz ancora addormentati e facevano irruzione al Supernova Festival in corso a Re’im. Il bilancio: 1200 israeliani uccisi, 250 rapiti. Parte da quel terribile 7 ottobre una escalation che atterrisce il mondo. Israele dichiara immediatamente lo stato di guerra e lancia una violentissima campagna contro la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, colpendo in maniera indiscriminata obiettivi militari e civili.
Nel primo anniversario dell’attentato, una soluzione del conflitto sembra impossibile, con i fronti che anziché ridursi in dodici mesi si sono moltiplicati e si moltiplicano: a sud le forze israeliane si scontrano con gli Houthi che attaccano dallo Yemen, a nord sono penetrate in territorio libanese per eliminare Hezbollah. L’Iran, patron delle milizie sciite, ha attaccato direttamente lo Stato ebraico due volte, in aprile e in settembre.
Gli attacchi, le rappresaglie, i tentativi di dialogo, le vittime, potrebbero far dimenticare che quest’anno di guerra è stato solo l’ultimo di molti altri in cui israeliani e palestinesi si sono scontrati. Incapaci di trovare una forma di convivenza pacifica dal momento della nascita dello Stato ebraico, nel 1948, da quando si dividono e contendono una porzione di terra che sembra sempre più inquinata dall’odio.
“I bambini di Gaza che sopravviveranno alle bombe diventeranno terroristi, cresceranno nel rancore”, suggerisce Ahmed, un ragazzo libanese che accetta di condividere queste poche parole a condizione che non si usi il suo vero nome, come se avesse paura di esprimersi. Nessuno dei cinque palestinesi che abbiamo contattato per farci raccontare la Palestina con i propri occhi ha voglia di parlare. Forse per evitare che il loro racconto diventi “un massacro obbligato a stare dentro frasi a effetto e a un numero limitato di parole”, come scrive la poetessa palestinese Rafeef Ziadeh, o forse perché tanta sofferenza è impossibile da dire ad alta voce.
Ognuno di loro commenta con poche parole, sempre le stesse: “Sono vivo, alhamdulillah”, grazie a Dio. E non è poco: in un anno oltre 40 mila palestinesi sono stati uccisi nel conflitto. Che si è presto distinto non solo per la brutalità, ma anche per la drammatica disumanizzazione de proprio simile, il vero muro che rende incomunicabili le posizioni delle parti coinvolte.
Narrazioni di guerra
In guerra la verità smette di essere una, si disfa in tanti pezzi quanti i punti di vista degli attori coinvolti. Il conflitto tra Israele e Hamas non fa eccezione, le parti si sono demonizzate a vicenda, amplificando una spaccatura che in Occidente si è tradotta nella polarizzazione dell’opinione pubblica, con i media che non sono sempre riusciti a riportare la complessità del conflitto, combattuto su più livelli, non ultimo quello della narrazione.
Roberto Iannuzzi, autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda”, riporta al centro gli eventi, per correggere le storture della comunicazione di guerra. A partire proprio dagli attentati di un anno fa, perpetrati non solo da Hamas ma, ricorda, “anche da altre fazioni, tra cui la Jihad Islamica e il movimento laico del Fronte di liberazione popolare della Palestina”. Concentrare l’accusa su Hamas è servito a Israele “per giustificare la violentissima operazione militare che è seguita al 7 ottobre”.
Una rappresaglia che ha messo in difficoltà l’Occidente, costretto a trovare un compromesso tra la tradizionale vicinanza a Israele e la necessità di tutelare il popolo palestinese vittima degli attacchi. I fatti suggeriscono che è stata la prima a prevalere: “C’è stato un silenzio assenso nei confronti di quello che Israele stava facendo a Gaza”, osserva Iannuzzi. Non solo, nonostante i reiterati appelli da parte dell’Onu affinché Israele smettesse di colpire i civili, “il continuo afflusso di armi dagli Stati Uniti verso Israele rende l’Occidente direttamente complice”. Solo il 26 settembre Washington ha approvato un pacchetto di aiuti da 8,7 miliardi di dollari per sostenere gli sforzi militari e ammodernare i sistemi di difesa aerea.
“Paradossalmente”, aggiunge Iannuzzi, “la stampa israeliana ha trattato in maniera più rigorosa l’andamento della guerra”, persino gli attacchi del 7 ottobre, ospitando un dibattito pluralistico.
Prospettiva israeliana
Questo perché “in un paese democratico la stampa è libera”, conferma David Zebuloni, giornalista italo-israeliano che vive in Israele. In una società eterogenea come quella israeliana la stampa rispecchia la molteplicità delle posizioni. Ma c’è un tema su cui tutti, media e popolazione, sono d’accordo: la priorità è liberare i 101 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Una “consapevolezza che grava su tutti gli israeliani, non c’è conversazione che non sfoci nel senso di angoscia per gli ostaggi e la loro sorte”.
Un sentimento che unisce: “La narrazione della guerra all’interno di Israele è una sola, e accomuna tutte le testate locali. La giustifica, sostiene che Israele combatte perché non può fare altrimenti, perché deve sopravvivere. Nessuno ha dubbi sul fatto che questa guerra sia giusta e legittima, per quanto suoni orribile da dire”. Invita a scavare la complessità, “il compito del giornalista non è cercare buoni o cattivi”, e prova a trasmettere la frustrazione di un Paese circondato da nemici che viene accusato di genocidio.
“Tel Aviv si trova a doversi spiegare a un mondo civilizzato, democratico e liberale che non conosce il terrorismo da vicino”, che non sa cosa voglia dire confrontarsi con qualcuno che è “disposto a uccidersi pur di ucciderti”. Gli chiediamo allora se non prova per gli oltre 40 mila palestinesi morti la stessa angoscia che sente per gli ostaggi. “Sì, soprattutto per bambini e anziani”, risponde, “ma molti palestinesi apparentemente innocenti sostengono Hamas, sostengono il terrorismo e questo li rende terroristi. Ai miei occhi non sono vittime”.
E quindi? Quale può essere una soluzione? “Non lo so, il dramma che vivo è proprio quello di non riuscire a vedere un dopo”. La soluzione a due Stati non è realistica, “è idilliaca”. Servirebbe “una pace concreta”, suggerisce, come quella che Israele ha stretto con i Paesi con cui ha normalizzato le relazioni, Egitto, Giordania, e i firmatari degli accordi di Abramo del 2020.
Futuri impresentabili
Quando Hamas ha compiuto gli attacchi del 7 ottobre – “comunque pianificati da anni”, specifica Sara Leykin, ricercatrice di Ispi per la regione Mena – quei territori stavano attraversando un momento di distensione. “Non solo tra i Paesi arabi che hanno stabilito relazioni diplomatiche con Israele ma anche tra Arabia Saudita e Iran”. Il clima che si respirava nel Golfo lasciava presagire “un cambiamento di paradigma nell’elaborazione della politica estera”, una crescente consapevolezza dei benefici derivanti dal coltivare le relazioni con lo Stato ebraico.
Tra le ragioni che hanno spinto il gruppo palestinese a procedere con l’offensiva ci sarebbe stata la volontà di impedire che anche Riad istaurasse rapporti regolari con lo Stato ebraico, anche se “stabilire in maniera univoca quale fosse l’obiettivo di Hamas e quali le sue aspettative rischia di sfociare in narrative sbagliate” che banalizzano le sfaccettature della questione.
L’offensiva di Hamas ha di certo rappresentato la miccia che ha fatto riesplodere il mai sopito conflitto con Israele, la cui reazione ha avuto forti ripercussioni in Occidente. Dove si è verificata “una visibile scollatura tra i governi, determinati a perseguire i loro interessi, e la popolazione, che ha largamente manifestato” a favore della fine delle ostilità. Anche per Leykin è difficile dire come questa possa essere raggiunta: “A meno che”, afferma Leykin, “i Paesi europei, gli Stati Uniti e gli altri mediatori coinvolti nei negoziati non si impegnino in un’attività di forte pressione su Israele affinché interrompa la sua campagna” è improbabile che questa fase del conflitto si concluda presto. A maggior ragione se si considerano gli altri elementi che pesano sull’andamento della guerra, come gli Stati Uniti che devono calibrare le loro scelte in vista delle presidenziali di novembre. O il ruolo dell’Iran “che non può non intervenire per non abbandonare e irritare i suoi proxies, ma che non vuole nemmeno entrare in conflitto con Israele”.
Perché Israele “è avanti anni luce rispetto all’Iran”, spiega Giovanni Giacalone, analista e docente di sicurezza e terrorismo dell’Università Cattolica di Milano, e ora potrebbe avere “l’opportunità di infliggere un colpo devastante, forse definitivo, al regime iraniano” indebolito al suo interno da faide per il potere e malcontento della popolazione. Così il Medio Oriente, “un’area precaria per sua natura, dal 7 ottobre lo è diventata ancora di più”.
Un contesto troppo infiammabile per sperare che gli appelli alla de-escalation abbiano un seguito, con le parti coinvolte che rimangono paralizzate nelle loro posizioni. Intrappolate da decenni in quel groviglio di convinzioni che anziché sbrogliarsi si stringe più forte in una stretta che accieca. Che allontana ulteriormente i palestinesi dagli israeliani, che approfondisce le ferite anziché sanarle. Non basta sapere che serve una cura diversa dalla malattia per immaginare una via d’uscita dalla spirale di violenza che vieta la vita a quelle terre.