Piero continua a crepare in guerra, Bocca di Rosa a fare l’amore e Michè a suicidarsi in carcere. Perché i personaggi letterari sopravvivono all’autore e gli ultimi continuano a perdere. Semplicemente non c’è più Fabrizio De Andrè a cantarne le gesta.
Il ventennale della scomparsa del cantautore genovese ci mette di fronte al grande imbroglio di una falsa assenza, perché la sua poesia è rimasta qui, intatta e insuperata, e i suoi eroi abitano ancora le nostre vite. Solo ci manca il suo fumo, mentre il silenzio c’era già. L’unico rimpianto è l’impossibilità di avere nuove canzoni, nuove storie e magari qualche sferzante commento sull’attualità, ma siamo già abbastanza fortunati ad averlo avuto.
Poeta, scrittore, musicista e cantante. Certamente intellettuale, De Andrè ha attraversato la seconda metà del Novecento italiano in direzione ostinata e contraria contro l’etica e l’estetica di un Paese che si voleva vedere di buon umore e di buon senso. Il giurista mancato si è fatto menestrello e ha cantato tutto quello che l’Italia della Dc non voleva sentirsi dire.
La sua musica è stata l’epica degli emarginati e degli sconfitti. I suoi eroi erano prostitute, poveracci, soldati pacifisti, suicidi, indiani massacrati e transessuali. Il suo canzoniere è una sorta di ciclo dei vinti, un campionario di romantiche disfatte, magnifiche illusioni e feroci ingiustizie. Ma niente di esclusivamente letterario, nonostante lo splendido prestito di Antologia di Spoon River.
Ma l’obiettivo di Faber era sempre combattere il potere. Impossibile dissociarlo dal bombarolo, così dissacrante verso giudici e carabinieri, leggi e benpensanti con il celebre verso “Non ci sono poteri buoni”.
Ed era anche un cantore di sentimenti: impossibile dimenticare il celeberrimo “ricordi sbocciavan le viole” della Canzone dell’amore perduto.