“E’ come se fossi stato cinque mesi su Marte. e ho scoperto che i marziani sono davvero cattivi”. Queste le prime parole di Domenico Quirico, atterrato ieri a Ciampino e ricevuto dal Ministro degli esteri Emma Bonino.
La storia del rapimento. Il giornalista de “La Stampa” era entrato in Siria, il 6 aprile per raccontare questa guerra civile che sta dilaniando il paese. Già in precedenza era stato ad Aleppo e a Idlib, zone già occupate dagli insorti. Ma Quirico voleva descrivere il conflitto laddove infuriava la battaglia tra ribelli ed esercito regolare, a Homs, dove si era trovato nel pieno della controffensiva condotta dai militari e dai miliziani libanesi di Hezbollah. L’ultimo sms mandato alla famiglia risale al 9 aprile. Poi un lungo silenzio. A questo punto si è mobilitata l’Unità di crisi della Farnesina. Tentati diversi contatti con i rapitori per avviare le trattative. Ma la comunicazione è risultata complessa: la battaglia infuria e la diplomazia non ottiene successi. Dall’Italia l’appello disperato: dal sito de “La Stampa”, il 1 giugno, le figlie Eleonora e Metella avevano invocato la liberazione del padre. Questi i mesi più terribili, perché erano cominciate a circolare presunte indiscrezioni sull’eventuale morte di Quirico. Ma la reazione dei familiari e della politica è rimasta composta: nessun grido, nessun clamore, un’esposizione mediatica senza eccessi per favorire il duro lavoro dellaFarnesina. Il 6 giugno la speranza viene riaccesa da una telefonata che l’inviato ha fatto alla moglie Giulietta: “Sto bene, mi hanno tenuto prigioniero”, poche parole, ma un grande segno. I rapitori gli avevano concesso di usare il telefono, un sospiro di sollievo per la famiglia, almeno avevano saputo che era vivo. Il 21 agosto la situazione si era complicata ulteriormente: nel conflitto vengono utilizzate le armi chimiche e si preannuncia un blitz americano per punire Assad, ritenuto dall’amministrazione Obama responsabile della tragedia. Questo era il momento in cui bisognava fare in fretta: se già era difficile stare in contatto con i rapitori in pieni conflitto armato, immaginiamo in seguito ad un intervento americano. Ma il profilo basso dell’operazione viene mantenuto fino al rilascio avvenuto ieri sera. Già alle 21, il direttore de “La Stampa” Mario Calabresi ha annunciato su Twitter il rientro del suo inviato. I dettagli della trattativa sono ancora sconosciuti. E’ ipotizzabile un pagamento di un riscatto, ma nei prossimi giorni saranno fornite informazioni più dettagliate.
I rischi del giornalismo di guerra. Andare come inviati in zone in pieno conflitto armato è molto pericoloso, si essere rapiti o di rimetterci la pelle. Una delle storie più rappresentative di queste difficoltà che incontrano i giornalisti in questi luoghi è quella di Daniele Mastrogiacomo. Inviato dal quotidiano “Repubblica” in Afghanistan nel 2007, viene rapito dai talebani perché credevano fosse una spia britannica. Anche in questo caso ha vinto il lieto fine della liberazione, ma dopo trattative complesse ed estenuanti per le quali si è dovuto coinvolgere l’ONG di Gino Strada “Emergency”, oltre che esercitare una fortissima pressione sul presidente Karzai. Ma non tutte queste vicende hanno un epilogo positivo: purtroppo dal 2000, sono morti nei teatri di guerra ben 1110 giornalisti.
Nessuna notizia su padre Dall’Oglio. Continua il silenzio sulle condizioni di padre Dall’Oglio, il gesuita rapito in Siria il 27 luglio, presumibilmente da un gruppo di estremisti islamici vicini ad Al-Qaeda. Il religioso è noto per aver ricostruito la comunità monastica cattolico-siriaca ed è stato espulso dal paese negli anni ottanta. Nel 2012 era tornato per far liberare alcuni ostaggi. Il 12 agosto un sito arabo ha annunciato la sua morte. Nessuno l’ha confermata, ma nemmeno smentita. Prosegue il lavoro della Farnesina per la sua liberazione.
Alessio Perigli