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15 anni dopo Sirchia, i giovani non smettono di fumare

di Patrizio Ruviglioni22 Gennaio 2020
22 Gennaio 2020
Foto Piaxabay

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Quindici anni fa, il 10 gennaio 2005, entrava in vigore la legge Sirchia, dal cognome del ministro della Salute che la propose. Il provvedimento – promulgato già nel 2003 – prevede il divieto di fumare nei locali pubblici chiusi e, in base ai dati diffusi recentemente dall’Istituto Superiore di Sanità, sembra aver avuto un certo successo nel suo intento di dissuasione: da allora, i consumatori di tabacco in Italia sono diminuiti di un milione, scendendo a 11,6 milioni (il 22% della popolazione), ed è cresciuta la consapevolezza nei confronti del pericolo che comporta, come testimoniano le richieste d’aiuto al Telefono Verde, nel frattempo quadruplicate. Ma, riferisce l’Iss, rimane l’allerta per i giovani, con valori sopra alla media: per esempio, nella fascia d’età 20-24 si registrano picchi del 32,4% per gli uomini e del 22,2% per le donne. Inoltre il 24,8% dei ragazzi di quindici anni e il 31,9% delle loro coetanee dichiara di aver fumato almeno una volta nell’ultimo mese.

Le conseguenze di una legge rimasta a metà
“Prima del nostro intervento, in Italia si badava più alla cura dei danni del fumo che alla prevenzione”, ricorda a Lumsanews Girolamo Sirchia, medico, ministro della Salute dal 2001 al 2005 e principale promotore del provvedimento. “Ovviamente non fu facile attuarlo: come gli altri Governi prima e dopo di noi, eravamo sottoposti alla pressione dei produttori del tabacco. Anche per questo, la legge di cui stiamo celebrando l’anniversario è rimasta incompiuta”.

La norma, infatti, si prefissava due obiettivi. “Il primo – spiega l’ex ministro – è quello in vigore, che riguarda i locali chiusi e serve da scudo contro il fumo passivo. Ci chiedevamo: perché, anche costituzionalmente, la nostra salute deve essere messa a rischio da chi usa le sigarette?”. Poi però c’è la seconda parte, mai attuata, che riguarda i giovani: “Era importante agire sulle fasce d’età più basse, per prevenire la loro iniziazione. Ma alla fine questo punto non si è concretizzato, e i ragazzi sono ancora bombardati da messaggi positivi legati al tabacco”. Cosicché il vizio continua a far breccia tranquillamente fra di loro.

Fumare è “un rituale”
“Per gli adolescenti l’approccio alle sigarette è simile ai riti di passaggio delle società primitive: serve a porsi alla pari agli adulti. Spesso attraverso il fumo si sentono ‘ribelli’, più ‘grandi’ di quello che sono”, spiega a Lumsanews Stefano Cifiello, psicologo, sociologo e autore di diverse ricerche in merito. “È soprattutto una questione di comunicazione, con i media che veicolano valori legati alle sigarette come forza, bellezza, sicurezza. E così il fumo diventa affascinante”.

Questa dinamica, sostiene il sociologo, spiega anche la questione della disparità di genere: fra i giovani infatti fumano più le donne che gli uomini. “La società spinge le ragazze ad apparire ‘disinibite’, e la sigaretta dà questa sensazione. La colpa è, anche qui, dei modelli: basti pensare alla femme fatale fumatrice, retaggio dagli anni venti. A prova di quanto siamo davanti a una tradizione radicata”.

“Il problema è che i ragazzi sono il polmone di riserva ‘dell’epidemia tabagista’: per ogni adulto che smette, c’è un diciassettenne che inizia”, racconta a Lumsanews Roberta Pacifici, dottoressa dirigente di ricerca all’Istituto Superiore di Sanità. “Per questo il tasso di fumatori in Italia è sostanzialmente in stagnazione, dopo lo sprint iniziale al ribasso dovuto alla Legge Sirchia. Del resto, la dipendenza da nicotina dura almeno vent’anni”.

È tutto un problema di comunicazione? 
Non a caso, anche al netto del calo del consumo di sigarette tradizionali, negli ultimi quindici anni è corrisposto un aumento delle alternative. Le vendite di tabacco trinciato, per esempio, sono cresciute del 500%, tanto che oggi ne fa uso il 18,3% dei fumatori.  Senza contare, poi, la sigaretta elettronica. “Ma entrambi hanno effetti nocivi”, precisa Pacifici dell’Iss. “Il punto è la percezione distorta che se ne ha, come se fossero meno dannosi, e ciò è dovuto al modo in cui i prodotti si presentano. Prendiamo la sigaretta elettronica: ha un bel design, è accattivante, ne fanno spot con sponsor che gli adolescenti ritengono autorevoli. E così sembra che sia innocua, ma non è vero”.

Cosa si può fare, allora, per dissuadere i giovani? “Per me una prevenzione efficace partirebbe già da un’applicazione sistemica della legge, che tutt’ora manca”, accusa Sirchia. “In posti dove è proibito si fuma lo stesso, per dire, perché non ci sono controlli sufficienti. Poi interverrei alzando la tassazione sul tabacco e convertendo le piantagioni”. “Sicuramente sì: aumentare i prezzi sarebbe una soluzione, tra l’altro già promossa dall’Organizzazione mondiale della sanità”, fa eco lo stesso Iss.

Anche se, al netto di queste strategie, al momento il problema principale sembra riguardare come comunicare ai ragazzi il pericolo del fumo. “La verità – sintetizza Cifiello – è che le attuali campagne di informazione, quelle con immagini forti sui pacchetti, aiutano le persone già predisposte a curare sé stesse. Ma l’idea di trasgressione e di ‘autodistruzione’ resta troppo affascinante per gli altri, o paradossalmente così si rafforza. A costo di fare scelte rigorosamente non razionali, s’intende”.

“Dobbiamo trovare il modo di parlare ai giovani: col loro linguaggio, attraverso i loro canali e dando voce ai volti che reputano autorevoli”, chiude Pacifici. “La sigaretta elettronica lo fa già: viene sponsorizzata persino sui social, e così sembra ‘alla moda’. Noi invece non riusciamo a sintonizzarci coi ragazzi per educarli a non fumare. Ma la chiave è proprio qui”.

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