Alle 17.57 del 23 maggio di ventotto anni fa un’esplosione fece saltare in aria un tratto dell’autostrada A29, che collega Palermo con Mazara del Vallo, nei pressi di Capaci. Persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. L’attentato rientrava nella strategia di attacco al cuore dello Stato, portata avanti dalla Commissione di Cosa Nostra, presieduta in quel periodo dal boss corleonese, Salvatore Riina. Alzare il livello dello scontro, eliminare giudici, politici non conniventi, agenti delle Forze dell’Ordine e giornalisti ‘scomodi’ era il tratto distintivo della mafia da quando ‘Totò u curtu’, insieme alla sua fazione, aveva preso le redini della Cupola. Un’escalation criminale che aveva insanguinato la Sicilia nel corso di tutti gli anni ’80.
Con Capaci il salto di qualità eversivo segnò uno spartiacque. Eliminare Falcone e farlo con quella dinamica ‘spettacolare’ significava sfidare le Istituzioni nel tentativo di ergersi a interlocutore paritario dello Stato. Le indagini legate alla morte del giudice palermitano e ad altri eventi successivi dimostreranno che l’obiettivo dei corleonesi era proprio quello di iniziare una trattativa e aprire un canale di dialogo, almeno con una parte dell’apparato statale.
“Fu un periodo drammatico per la Sicilia. La mafia colpì il simbolo più importante della lotta alla criminalità organizzata. Però la società civile ebbe un risveglio, proprio da quell’evento iniziò un nuovo periodo di attivismo e presa di coscienza”, ricorda a Lumsanews Chiara Natoli di rete Libera Palermo.
Nell’ultimo periodo il giudice Falcone confessava di avere l’impressione di essere isolato, in alcuni casi percepiva l’ostilità dei palermitani che guardavano al suo operato con diffidenza. Quale era il clima in città?
“C’era una certa ostilità, infastidivano le sirene delle auto della polizia che scortavano i magistrati in città. In particolare l’attività di Falcone non era apprezzata perché, si diceva, alzava un polverone screditando la reputazione di un’intera comunità. Venne addirittura accusato di aver simulato l’attentato all’Addaura per farsi pubblicità”.
La strage di Capaci inizialmente fu inserita nella logica criminale puramente interna a Cosa Nostra. Negli anni successivi si è invece adombrata la possibilità che l’attentato fosse stato concepito anche da ambienti deviati dei ‘servizi segreti italiani’. Che ne pensa?
“Sicuramente in quella stagione ci furono relazioni pericolose tra esponenti mafiosi e pezzi di Stato. I misteri e i depistaggi furono ancora più evidenti dopo l’uccisione di Paolo Borsellino. Le indagini furono inquinate e dalla scena del crimine sparì ‘l’agenda rossa’, dove il magistrato annotava tutti i suoi appunti”.
In questo contesto si inserisce il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. La vostra associazione che posizione ha?
“Rete Libera si è costituita parte civile in quel procedimento. Credo che questo espliciti il nostro convincimento”.
Dopo la stagione stragista, Cosa Nostra si è inabissata. E’ diventata una ‘mafia invisibile’, quali pericoli nasconde questa mutazione?
“Certamente c’è stato un cambiamento di strategia. Una ristrutturazione che, non da ora, vede la mafia siciliana entrare in operazioni finanziarie che riguardano tutto il Paese e infiltrarsi nel tessuto imprenditoriale soprattutto al Nord. La violenza di quegli anni non sarebbe compatibile con l”affarismo’ tipico della rinnovata criminalità organizzata. Questo non deve però fare abbassare la guardia alle Istituzioni perché, i tentacoli mafiosi continuano ad soffocare la crescita economica, culturale e sociale di un’intera Regione e a inquinare la legalità in tutto il Paese”.