Partire è un po’ morire, scriveva il poeta. E stavolta il viaggio verso casa, mio come di molti altri fuorisede, è avvenuto in piena emergenza Coronavirus e nel primo giorno di coprifuoco nazionale della storia repubblicana.
Ieri mattina, a poche ore dal decreto governativo con cui tutta l’Italia era diventata una grande zona rossa, fatta di mobilità limitata e attività sospese, mi sono affacciato in una Roma semi deserta. Ad abitarla pochissime persone, tutte di fretta, e prevalentemente dotate di mascherine. Alle loro spalle, in un Viale Giulio Cesare che fino a qualche settimana fa pullulava di turisti e affari, un cinema e un’agenzia di viaggi chiusi si alternavano a bar e minimarket desolati. Per strada gli autobus passavano semi vuoti. Mi sono recato a Termini con la metropolitana, anche questa ricca di spazio e con pochi e diffidenti passeggeri in mascherina. Arrivato alla stazione Termini ho notato molta polizia, interamente dotata di mascherina, come nei film apocalittici americani. Probabilmente le forze dell’ordine, sommate agli impiegati, superavano i passeggeri in transito. I negozi della stazione erano deserti, i dipendenti delle varie botteghe parlottavano tra loro nei corridoi (unicamente del Coronavirus) e lamentandosi della loro condizione, perché si sentivano particolarmente esposti. Ai binari del treno pochissima gente in attesa, d’altronde – per legge – i viaggi interni sono vietati, se non per casi eccezionali e autorizzati. Nel Leonardo Express, che collega la centrale stazione con l’aeroporto Leonardo da Vinci, tantissimo spazio per collocare la valigia e posare giubbotti e accessori. Arrivato a Fiumicino capisco che a prendere il volo da Roma, e dal principale aeroporto d’Italia, saremmo stati davvero pochi. Per accedere alla struttura ho dovuto raccontare agli agenti le motivazioni del stare a Roma e del voler tornare a Catania, la mia città. Lavoro, sede del domicilio, famiglia, perché questo viaggio, luogo di residenza, ipotesi di rientro: questi i temi del mini colloquio, necessario per ottenere la certificazione valida per il permesso allo spostamento. Chiaramente tutto deve essere provato dai documenti. La mia autocertificazione è stata ritenuta valida perché sono ancora residente a Catania e, insieme a chi ha necessità lavorative e di salute, avevo il diritto di tornare a casa per trascorrere la “quarantena” in famiglia.
Fiumicino è semi deserto, la mia valigia emetteva un rumore udibile in tutto il piano. Pochissimi passeggeri, quasi tutti dotati di mascherine e chi ne era sprovvisto si copriva il volto con la sciarpa. La dipendente della mia compagnia aerea, alla quale affido il bagaglio, mi dice che lei non ha “paura” ma che lavorare così, in aeroporto, è un “rischio”. La fila ai controlli dura solo un minuto.
Sullo sfondo i monitor segnalano la cancellazione di numerosi voli. Anche qui negozi e bar desolati, con gli impiegati che parlavano tra loro: la giovanissima dipendente di una boutique di cosmetica sbottava “Non lo volete capire che il momento non è idilliaco?”. Al gate tanti posti liberi, perfino la postazione con le prese di corrente. L’attesa dell’imbarco era vissuta con silenziosa diffidenza e plateale distacco fisico, pure tra coniugi, nel continuo bisbigliare di un solo argomento. Ai lati di tutti, gli schermi proponevano senza soluzione di continuità le ultime notizie e i bollettini sul Coronavirus. In aereo, pieno solo per meno di metà, siamo quasi tutti distanziati. Io ho diviso la fila con il mio giubbotto. È stato il viaggio aereo più puntuale della mia vita, con arrivo a Catania addirittura in anticipo. Agli arrivi, la polizia, anche qui con le mascherine, ci ha chiesto di formare una fila ordinata per poi farci passare singolarmente sotto la lente del detector termico, con un’agente che guardava i nostri corpi colorati a seconda del colore. Proprio come nei film. Nessuno di noi sembrava avere alta temperatura, uno dei sintomi del Covid-19. Ho perso quasi più tempo ad aspettare la valigia sul nastro che non a sorvolare attraversare metà Paese.