Percepiamo lo smartphone, compagno inseparabile ormai della maggior parte delle nostre attività, come uno strumento che ci consente un contatto interattivo costante con la realtà. La tavoletta ipertecnologica che portiamo in tasca o in borsa, ovunque andiamo, ci trasmette l’impressione di incrementare le nostre capacità di risolvere problemi.
In realtà, i telefonini 2.0 sono una vera microspia che portiamo quotidianamente con noi, in ogni momento della nostra giornata, fin dentro la camera da letto. Una sorta di cimice che registra e immagazzina una mole impressionante di dati personali, che riguardano ogni dettaglio della nostra vita privata.
Dati che siamo noi stessi a regalare al device, fornendo a quelle “app” che scarichiamo l’accesso all’intero contenuto del nostro smartphone: programmi che per essere installati pretendono un consenso all’utilizzo dei nostri dati. Senza questo consenso non si possono installare: o tutto o niente, sembrano voler dire. Quei dati a cui le app pretendono l’accesso valgono oro, e vengono rivenduti ai colossi del web. O immagazzinati direttamente, senza passaggi intermedi, tramite i social network.
Tanto che il valore medio di ogni utente, cioè ognuno di noi, è stimato in circa 16 dollari. Veniamo venduti sul mercato dei dati online, quindi, con tanto di prezzo. Uno studio condotto da DG Connect, l’organo incaricato di monitorare il mercato europeo delle comunicazioni per conto della Commissione Europea, ha scoperto che i dati personali raccolti nel territorio dell’Unione, nel corso del 2016, hanno prodotto un giro di affari pari a circa 60 miliardi di euro. Le informazioni personali, come dice qualcuno, oggi valgono più dei soldi. Sono il nuovo petrolio, ed è già scattata la corsa all’oro nero dei click online.