Perdente sul campo, ma vincente nel business: sembra ormai essere diventato questo il copione della partecipazione (iniziata nel 2000) dell’Italia al Sei Nazioni, il più prestigioso torneo internazionale di rugby a cadenza annuale.
Roma invasa da tifosi coloratissimi. Sul rettangolo verde l’Italia fa infatti la figura della Cenerentola, tanto da meritarsi quasi ogni anno quel “cucchiaio di legno” che spetta agli ultimi in classifica. Nonostante questo, fuori dal campo la musica è ben diversa, grazie anche all’azzeccatissima scelta di far svolgere a Roma tutte le partite della nazionale. Ad ogni match giocato in casa (alternativamente, due o tre ogni anno) la Capitale si riempie infatti di coloratissimi – e assolutamente pacifici – turisti con la faccia dipinta e infagottati nelle loro bandiere, che affollano per l’intero week-end alberghi, negozi, pub e ristoranti della Città Eterna. Da qualche anno, poi, la febbre del rugby ha contagiato anche gli italiani, tanto da aver reso possibile – nonostante alcuni timori iniziali – l’abbandono del piccolo stadio Flaminio a favore dell’Olimpico, che, nonostante la capienza più che doppia, continua a far registrare sempre il tutto esaurito.
Il business per la Capitale e la Federazione. Tra biglietti venduti, merchandising ed effetto indotto sul turismo, il giro d’affari viene calcolato intorno ai 20 milioni annui, quindi si capisce bene come fin dal 2003 altre città (Genova, Firenze, ecc.) abbiano ripetutamente cercato – senza riuscirci – di “scippare” alla Capitale il ruolo di città ospite. Incassi più che interessanti anche per la Federazione Italiana Rugby, che – oltre ai propri sponsor – detiene una quota significativa degli introiti ufficiali della manifestazione, assicurati dallo sponsor unico Royal Bank of Scotland e dai diritti televisivi: solo il 15% dei ricavi complessivi del Sei Nazioni è infatti assegnato in base al piazzamento in classifica, mentre il 10% rispecchia il numero dei club presenti in ogni nazione ed il 75% è assegnato in parti uguali a tutte le federazioni partecipanti.
Il “terzo tempo” ed il messaggio di pace. Il Sei Nazioni ha assunto questo nome nel 2000, con l’arrivo dell’Italia. Per tutto il XX secolo il torneo si è invece chiamato Cinque Nazioni dopo l’ingresso nel 1910 della Francia nell’ex Home Championship tra le squadre di rugby delle (allora) quattro province britanniche: Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda. Neanche l’indipendenza raggiunta nel 1922 da Dublino e la separazione dell’isola tra nord protestante e sud cattolico ha mai intaccato l’unitarietà della nazionale con la maglietta verde, che – come in altri sport di squadra, escluso il calcio – non ha mai smesso di giocare con una sola formazione panirlandese. Del resto, nonostante le apparenze, il rugby è certamente uno sport molto “fisico” ma non violento, ed è ben nota la tradizione del “terzo tempo”, che porta a fine match i giocatori delle due squadre – e anche i tifosi nei pub – a bere (almeno) una birra tutti insieme.
L’Albo d’oro. Sulle 114 edizioni disputate complessivamente a partire dal 1883, 37 sono state vinte (alcune ex-aequo, come era possibile fino al 1993) dal Galles. Al secondo posto, con 36 successi, c’è l’Inghilterra. Molto staccate le altre tre squadre “storiche”: Francia (25 vittorie), Scozia (22) e Irlanda (20, compresa l’edizione 2014). Ancora a zero l’Italia, che in quindici partecipazioni ha invece collezionato ben dieci “cucchiai di legno”, metà dei quali corredati addirittura dal famigerato “whitewash”: la sconfitta in tutte le partite.
Di Alessandro Testa