Fabrizio D’Alisera è un giovane musicista diplomato al Conservatorio; qualcuno potrebbe dire: uno dei tanti. Ma il suo è un “caso di scuola”: gli studi nel bel mezzo della riforma, l’ingresso nel mondo del lavoro artistico in uno dei momenti di crisi più profonda per il settore musicale, i sacrifici per “arrivare”. Solo il finale è diverso da quello delle storie di molti suoi colleghi; perché lui è riuscito a pubblicare un proprio disco e a collaborare con grandi nomi del jazz, a diventare un sassofonista di livello: un privilegio e un traguardo purtroppo, oggi, concessi a pochi talenti del nostro Paese.
Raccontaci brevemente la tua storia: i motivi di una scelta non “comoda”.
«Io ho scelto di fare il musicista di professione semplicemente perché amo la musica più di ogni altra cosa. Mi sembra un motivo più che sufficiente».
Ma hai mai considerato il momento che vive la musica in Italia ormai da troppo tempo?
«Non credo che oggi un laureato incontri un percorso più semplice di un musicista verso la propria realizzazione personale e professionale. Tanto valeva inseguire il sogno di una vita».
Non sono ancora di meno gli sbocchi professionali per uno che esce da un’accademia?
«Contratti a termine, a progetto, Co.Co.Co.: fanno ormai purtroppo parte della realtà socioeconomica; il problema vero è che noi artisti siamo considerati spesso poco necessari.
Un problema, dunque, culturale
«Proprio così. Siamo in un Paese che non promuove né l’arte né la qualità».
Eccoci al punto; tu, da giovane musicista, come giudichi dall’interno lo stato dell’alta formazione artistica in Italia? Inoltre, rispetto ai nostri “vicini” europei quali sono le carenze e, se vi sono, le cose su cui puntare per rilanciare?
«I Conservatori stanno da tempo andando, a mio avviso, in una direzione più “di business” che “di sostanza”. Io, quando mi sono iscritto, studiavo programmi sicuramente più approfonditi rispetto ad ora. L’ho constatato sulla mia pelle nel biennio di specializzazione».
Perché, allora, è stata scelta la via della frammentazione?
«Credo che, essendo l’intero sistema in fortissima crisi, hanno trovato un nuovo modo per ottenere un numero maggiore di allievi; probabile che, altrimenti, molte strutture avrebbero dovuto chiudere».
Rispetto ai nostri “vicini” europei quali sono le carenze e, se vi sono, le cose su cui puntare per rilanciare?
«All’estero incentivano con borse di studio ed opportunità professionali gli allievi. Qui, invece, il Conservatorio non si è mai occupato di inserimento professionale, nel modo piu’ assoluto».
In che modo, allora, un giovane può pensare di concentrarsi sulla musica una volta diplomato?
«Il titolo di studio è solo l’inizio di un lungo percorso. La musica non è una condizione acquisita, c’è bisogno di continuo studio ed il musicista, se vede seriamente la propria professione, deve continuamente a migliorare se stesso e non adagiarsi con la scusa di un futuro poco roseo; a volte le falle del sistema sono solo un alibi. Credo comunque che il diploma sia già un attestato di professionalità importante».
Tu, ad esempio, ci sei riuscito? Qual è la tua esperienza post diploma?
«Oltre, ovviamente, a fare concerti ho trovato la via più facile per “vivere di musica” nell’insegnamento; fortunatamente mi piace molto farlo e cerco di incuriosire e pungolare i miei allievi con continui stimoli».
Quale è stato, allora, l’elemento che ti ha consentito di fare il “salto di qualità”?
«Non ho mai smesso di studiare e frequentare seminari con musicisti di fama internazionale. Proprio stando a contatto con loro ho imparato quei piccoli “trucchi” del mestiere necessari per dare quel qualcosa in più».
Hai mai pensato all’insegnamento per trovare stabilità?
«Con i bienni di didattica musicale che abilitano all’insegnamento c’è un tale numero di potenziali insegnanti che non so quando verrà esaurito. La via per un posto fisso è lunghissima e, a mio avviso, si finisce per studiare tanto materie didattiche e toccare poco lo strumento».
E ad un concorso per entrare in un’orchestra?
«Il numero di orchestre stabili è ridicolo, hanno bisogno di fondi per andare avanti; ma dalle nostre parti si indirizzano le risorse altrove. Preferisco migliorarmi come strumentista».
Anche perché, nonostante i tanti ostacoli si può dire che stai avendo ragione?
«Sono molto contento di aver realizzato il mio primo disco “Mr. Jobhopper”; ha avuto ottime recensioni da parte di riviste specializzate e di sassofonisti di rilevanza internazionale come Emanuele Cisi. Ha inoltre ricevuto la targa premio “jazz it likes it”. Ovviamente sono contento dei risultati raggiunti, ma non sono ancora realizzato appieno, spero in futuro di affermarmi come leader e soprattutto di fare un tour con i miei progetti originali».
Però in pochissimi ci riescono e sono costretti ad abbandonare la musica per fare tutt’altro.
«Come dicevo, è un problema culturale; bisogna ricostruire un gusto, la ricerca del bello. Molto spesso ci vengono proposte cose scadenti ma ben pubblicizzate. Ma la musica, specialmente a certi livelli, non è per tutti. Si fa confusione: spesso si usa il termine “arte” per quello che è “intrattenimento”. Ma la gente credo sappia ancora apprezzare i prodotti di qualità».
L’immagine che a volte passa è che, aldilà della crisi, siano scesi proprio gli standard qualitativi della nostra musica.
«Non è vero. Il livello tecnico medio, rispetto solamente a 15 anni fa, è oggi spaventosamente elevato. Ci sono dei musicisti di 25 anni preparati come dei veterani. Il fatto è che hanno poco spazio per dimostrarlo».
Una piaga che affligge tutti i generi, oppure per i segmenti più moderni la situazione è diversa ?
«Ho molti amici che sono musicisti classici, e sinceramente non li vedo in buone acque. Anche nel mio settore (il jazz), però, non è che le cose vadano tanto meglio; le difficoltà nell’ottenere date e location per i concerti sono tante. C’è bisogno oggi più di ieri, oltre che della bravura, anche di molta intraprendenza e di capacità manageriali, cosa su cui spesso i musicisti (me incluso) faticano molto».
Tu hai puntato tutto sul jazz, un genere tutto sommato non “di tradizione” (almeno in Italia). Per risolvere la crisi endemica al sistema, non basterebbe quindi che i Conservatori si modernizzassero, aprendosi alle nuove tendenze musicali e scardinando i vecchi schemi?
«In realtà da 4-5 anni lo stanno facendo, ma con scarsi risultati. Il problema è che spesso non sono riusciti ad organizzare didatticamente il percorso. Spesso hanno inserito dei docenti che sono dei nomi affermati nel panorama musicale, ma non sempre il bravo musicista è un bravo insegnante. Dovrebbero scegliere con maggior cura i loro docenti (ma non hanno le capacità critiche per farlo, essendosi occupati solo di classica fino a poco fa); solo alcuni lo hanno fatto».
Mentre gli altri?
«Si sono modernizzati in un battito di ciglia per avere nuovi iscritti e “darsi un’aria moderna”, ma non hanno capito che la musica moderna, se ben fatta, ha tante complicazioni come la classica e non basta aprire nuovi corsi per saperla insegnare, c’è bisogno di scelte».
Allora, per restare al passo coi tempi, che fare?
«Credo che per studiare dei linguaggi specifici ci siano altre strutture più organizzate e più performanti dei Conservatori. In alcuni casi l’accademia non è un tappa obbligata; un buon insegnante può fare un ottimo lavoro anche al di fuori delle aule universitarie».
Potrebbe essere il compito ritagliato dalle scuole private che, da poco, hanno ottenuto il riconoscimento statale per i loro diplomi?
«Se si riuscisse a controllare bene chi insegna, come lo fa e come sono fatti gli esami, perché no. Il livello didattico in generale è molto incostante nelle varie strutture; autonomia spesso si traduce in approssimazione».
I tuoi ulteriori obiettivi, invece? Quali sono i prossimi progetti?
«Ho realizzato un secondo disco che uscirà quest’inverno e che mi vede a fianco del sassofonista Max Ionata, ormai fra i nomi più noti del jazz internazionale. Un passetto in più verso la felicità».
Marcello Gelardini