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1917-2017, i primi cento anni dell’utopia russa

di Lumsanews28 Settembre 2017
28 Settembre 2017

di Siria Guerrieri, Luisa Urbani e Massimiliano Venturini

Mosca, 25 Ottobre 1917. I bolscevichi lanciano la parola d’ordine: “Insurrezione generale”. Gli ex servi della gleba, i contadini analfabeti, gli operai sfruttati delle (poche) fabbriche allora esistenti, ma soprattutto i soldati, i marinai spinti al massacro sul fronte di una guerra folle e catastrofica, attaccano il Palazzo d’Inverno.

I comizi di Lenin in giro per la Russia avevano infiammato gli animi già rivoluzionari, lo spirito di quelle masse che a febbraio, pochi mesi prima, avevano messo fine all’impero millenario degli Zar, ma che ancora non avevano ottenuto nulla delle richieste collettive: terra, pace, potere ai soviet. La rivoluzione di febbraio non aveva portato cambiamenti concreti. Neanche un’Assemblea Costituente.

“Tutta la terra ai contadini, tutte le fabbriche agli operai, pace immediata”. È l’urlo collettivo con cui in poche ore, quella stessa mattina, un corteo formato da operai, bolscevichi e soprattutto dai giovani marinari di Kronstadt assalta la residenza invernale dei Romanov,  simbolo del potere degli zar. Il palazzo, divenuto sede del governo provvisorio insediatosi a febbraio, cade senza quasi opporre resistenza.

L’idea di un nuovo mondo. È l’inizio di una nuova era. Il mondo intero guarda all’Ottobre Rosso come alla realizzazione di un’utopia finalmente possibile. Ma per la Russia il sogno in pochi mesi si trasformerà in un incubo, con la guerra civile, le carestie, la repressione, l’istituzione della Čeka, poi l’orrore dello stalinismo.

La rivoluzione del ’17 segna indelebilmente i destini di un intero secolo. Perché si tratta della manifestazione vivente e concreta che un mondo diverso non è materia dell’aldilà, che una società più equa e più giusta è realizzabile, su questa Terra. A simboleggiare la vittoria di un’idea di riscatto da un mondo di oppressione e di miseria, per milioni di persone.

“La rivoluzione proletaria era possibile solo in Russia, perché in Russia mancavano tutte quelle strutture sociali borghesi che in Europa erano già consolidate”. Una considerazione, quella di Gramsci, che non può non far sorgere interrogativi, specie nella ricorrenza del centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Un anniversario che illumina conquiste ed orrori, al quale il mondo capitalista guarda con noncuranza e la Russia di Putin con diffidenza.

Che cosa resta oggi. Eppure, cosa resta oggi della “spinta propulsiva” della prima rivoluzione non liberale, la sola capace di tradurre in azione il messaggio evangelico dell’uguaglianza per tutti gli esseri umani?

Studiosi provenienti da aree diverse come Luciano Canfora, saggista, storico e membro della Fondazione Istituto Gramsci,

e Piero Bevilacqua, docente di Storia Contemporanea all’Università di Roma La Sapienza, trovano punti in comune sulle conquiste della Rivoluzione: i diritti sociali tradotti poi nelle Costituzioni dei Paesi occidentali, l’emancipazione femminile, le conquiste sindacali, l’educazione estesa alle varie fasce della popolazione, il tentativo di ridurre l’orario di lavoro a favore di una maggiore attenzione alla vita sociale e culturale.

Anche il crollo dell’Unione Sovietica dopo il 1991 ha avuto ripercussioni sul mondo occidentale: da allora le conquiste sociali introdotte con l’avvento della rivoluzione e recepite nelle politiche di welfare delle socialdemocrazie sono state rimesse in discussione, anche a causa della crisi economica e politica.

Silvio Pons, direttore della Fondazione Istituto Gramsci, docente di Storia Internazionale all’Università di Roma Tor Vergata e autore della Cambridge History of Communism per la Cambridge University Press, ai nostri microfoni delinea la grande influenza che ha avuto la rivoluzione d’Ottobre per il mondo e per la storia globale, analizzando l’eredità del 1917 per la Russia di oggi.

 

Il periodo di transizione iniziato con il crollo del muro di Berlino, fino all’ascesa al potere di Putin, ha evidenziato luci e ombre del lascito del comunismo all’interno dell’ex Unione Sovietica: da un lato la corruzione e la concentrazione del potere nelle mani degli oligarchi, la cui influenza permetteva loro di mantenere un ruolo di contro-potere rispetto alle nascenti istituzioni democratiche. Dall’altro, i primi segnali di democrazia importati guardando soprattutto all’Europa occidentale.

Anche sotto questo aspetto Luciano Canfora vede la Russia come “più democratica degli stessi Stati Uniti”. Bevilacqua rovescia la prospettiva critica e attribuisce la responsabilità degli aspetti autoritari del governo di Putin alla combinazione di due fattori di politica estera: l’atteggiamento degli Stati Uniti, che sembra tendere alla contrapposizione fra blocchi come ai tempi della guerra fredda, e la remissività dell’Europa, che anziché imporsi come terzo polo sullo scenario internazionale, si limita a ratificare le decisioni dell’alleato americano.

La Russia di Putin. Il passaggio ad una forma di democrazia “completa”, nell’attuale scenario internazionale, non sembra potersi distaccare dall’influenza di questi elementi. Il largo consenso interno di Putin – pur contraddistinto da ombre significative – va letto, secondo Bevilacqua, a partire dalla mancanza di un dialogo costruttivo nel panorama globalizzato fra le varie potenze.

La Russia di oggi, spiega Sergio Paini, corrispondente Rai da Mosca, “è una democrazia sui generis, di tipo autoritario, a cui guardano come modello l’Ungheria e i movimenti sovranisti europei di estrema destra”. Una “democrazia sovrana”, come ha teorizzato Vladislav Surkov, uomo di Putin, che a differenza delle democrazie liberali non è fondata sui diritti e sulle libertà individuali. “Sul piano internazionale la Russia putiniana si propone come modello alternativo e contrapposto all’egemonia globale di Washington. Non c’è però nessuna radice ideologica alla base di questa contrapposizione: anche le alleanze con Cina, Cuba, Venezuela, Iran, paesi che si oppongono alla globalizzazione a guida americana, sono di tipo tattico e geopolitico”. Qui l’intervista a Sergio Paini:

Anche il prof. Silvio Pons sottolinea, nella politica estera della Russia di oggi, la mancanza di una spinta ideologica analoga a quella del comunismo. Pons rileva però anche una linea di continuità tra l’Unione Sovietica e Putin: “La politica di potenza dell’Urss è sicuramente una premessa storica della Russia di Putin. In quest’ottica, il punto di riferimento di Putin in politica estera sembra essere molto più Stalin che Gorbaciov”.

 

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